Carlo Verdone acclamato al Lecco Film Fest:«Andavo alla ricerca di racconti»

Carlo Verdone al Lecco Film Fest

Carlo Verdone ha rinfrescato la torrida domenica del luglio lecchese con l’annunciata presenza in città per l’ultima giornata della quarta edizione del Lecco Film Fest. Nel pomeriggio l’attore e regista romano è stato ospite al cinema Nuovo Aquilone per presentare un capolavoro del Neorealismo, Umberto D., diretto da Vittorio De Sica.

Nel dialogo con Gianluca Arnone della Rivista del Cinematografo, Verdone ha approfondito un tema a lui molto caro come il cinema neorealista, un’epoca estremamente florida per l’industria italiana del grande schermo.

La parola a piazza Garibaldi

Dopo la proiezione del film, alle ore 19.00 in una piazza Garibaldi gremita di persone, Carlo Verdone è stato protagonista di un dialogo con Valerio Sammarco e Marina Sanna che si è trasformato in una sorta di monologo a tappe della vita personale e artistica del regista.

L’esordio è un ringraziamento al pubblico lecchese per la richiesta di autografi e selfie: «Qua a Lecco c’è una certa signorilità. A Roma me danno una pacca che me rompono la schiena. Invece voi ‘Vi rubo due secondi, un solo selfie’»

Verdone, un simbolo non solo romano: «Se ci basiamo sui primi film, che erano molto romani, come Un sacco bello, Bianco, rosso e Verdone, Borotalco, Acqua e sapone. Sora Lella, Mario Brega, Angelo Infanti, Troppo forte. Là siamo ancora in zona Roma. Poi ho cominciato a sterzare. E allora ho concepito un film come Io e mia sorella, che è stato un po’ l’introduzione a quello che sarebbe stato il film più importante della mia carriera come regista, non come attore, che è Compagni di scuola del 1988»

Il racconto di Compagni di scuola: «È un film per il quale mi sono preso cinquecento parolacce dal produttore, Mario Cecchi Gori. Oggi un copione è di 98-100 pagine, all’epoca potevi arrivare a 200-215. Noi eravamo arrivati a 230. Quando vide il copione di 230 pagine lo prese, lo soppesò e lo fece cadere sul tavolo. Fece un gran botto. Aprì e cominciò a leggere ‘Ma questo l’è un copione verboso. Ma dove si ride qui?’. E io ‘Mario, lo devi leggere il copione, è un film difficile’. Rispose ‘Ah, difficile, pure. Usciamo a Natale con un film difficile. Dissi ‘Mario, leggilo, l’ho scritto con il cuore, è un film importante per me come regista’. Sbottò ‘Ma tu devi fà ride! Fai ridere?’. E io ‘Farò pure ridere’, ‘No, pure, fai ridere?’ ‘Dovrei fa ridere’. Allora disse ‘Domani alle quattro torna che io stanotte me lo leggo’. Il giorno dopo tornai alla produzione, in via Barnaba Oriani. La segretaria mi disse ‘Il dottor Cecchi Gori la sta attendendo’. Bussai, sentii, ‘Avanti’. C’era lui appoggiato alla scrivania. Io in piedi, non mi diceva né vieni avanti né siedi. Lo guardai e mi fece ‘Hai scritto una stronzata. Prenderemo schiaffi da tutti. 230 pagine verbose’. Prese il copione e me lo lanciò contro. Una delle più grosse umiliazioni che io abbia mai avuto nella mia vita. Tutte le pagine volavano per la stanza. Tutte sparse, 230 pagine. Ad un certo punto mi fece ‘Io non so più che fare, ormai l’hai scritto, sarà una tranvata questo film, prenderemo sberle da chiunque. Lo vuoi girà, giralo. 18 attori è una carognata’. E io ‘Mario, non te preoccupa’. E bofonchiava. Poi fu colto da pena, perché stavo raccogliendo una pagina alla volta. Una, due tre, quattro, cinque, sei. 230 erano le pagine. Alla fine lui con il suo culone e il sigaro mi aiutava a raccogliere le pagine. ‘Qua c’è la 14, qua c’è la 46, qua c’è la 91’. Sembrava la tombola. Alla fine uscii dall’ufficio, misi il gettone, chiamai i miei sceneggiatori e dissi ‘M’ha tirato il copione in faccia’. E loro ‘No!’. E io ‘Si, mi ha tirato il copione in faccia. C’è da cambiare il produttore qua, questo è l’ultimo film che faccio con lui’. Son partite anche parolacce da parte loro. Veniva ogni tanto sul set e guardava schifato il numero degli attori. Li guardava tutti quanti e loro si mettevano sull’attenti. Li guardava e faceva ‘Quanta gente inutile, quanta gente inutile’. In maniera che questi sentivano pure. Un giorno Benvenuti mi fa ‘Ma ce l’ha con noi?’. Ed io ‘Evidentemente più che con voi ce l’ha con me’. Però quando lui venne a vedere il film, che era stato preparato e montato all’International Recording, con le colonne separate prima di fare il missaggio finale, si mise da solo davanti con il sigaro. Partì il film e non rise mai. Arrivato alla fine del film, titoli di coda, luci. Io guardai il missatore e gli dissi ‘Vabbè, lasciamo perdere’. Invece si alzò ed esclamò ‘Carlo vieni qui’. Andai da lui e mi disse ‘Tu mi freghi sempre. Li giri meglio di come li scrivi!’. E mi abbracciò. E capii che gli era piaciuto»

Cecchi Gori e la Sora Lella:«Il disastro di avere Elena Fabrizi, alias Sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi, era che era una matrona romana, simpatica, saggia, scoglionata. Rappresentava proprio tutta l’essenza della romanità. Le volevo un bene dell’anima. Un giorno, sciaguratamente, un macchinista disse ‘A’ Sora Lè, non è che ce farebbe du spaghetti all’amatriciana o alla carbonara?’ E lei subito ‘Tesoro mio, damme ‘na pila da campo e io te faccio quello che voi’. Allora mandarono un ragazzo, non so quanti chili di pasta portarono e fece una carbonara pe’ tutti. Noi non lo sapevamo. Se c’è una cosa che un attore o un regista non deve fare è mangiare pesante durante un momento di pausa perché riattacchi a girare che sei annebbiato, non ti ricordi le battute, reciti male, c’hai sonno, non te va… Non si fa mai. Questi mangiavano e mangiavano e infatti si andava a rilento. Sempre più a rilento. E si cominciavano a fare straordinari. Ad un certo punto arrivò a Mario Cecchi Gori la notizia ‘Guarda che questi pure oggi hanno fatto le sette e mezza de sera’. E lui ‘Ma questi ‘so pazzi mi fanno spendere milioni!’. Allora venne sul set e fece un rimbrotto a tutti. Voleva sapere il motivo di un film così semplice, che poi non era tanto semplice Acqua e sapone, perché finivamo sempre con gli straordinari. Allora l’organizzatore disse ‘Dottore lei c’ha ragione. Perché purtroppo chiedono alla signora Fabrizi de fa gli spaghetti alla carbonara, all’amatriciana…’. E lui ‘Non si deve fare, queste son stronzate’. La Sora Lella fece ‘Dottore, guardi, non li faccio più però so’ rimasti questi. Se li vo’, me farebbe un onore se potesse dargli n’assaggiata, c’ho messo er core’. Cecchi Gori rispose ‘No, mangio dopo, devo stare a dieta’. Lei insisteva ‘Se li senta, dottò’. Si mise là e se ne magnò du piatti. Finì che tutta la troupe, e ho una fotografia a casa con scritto ore 14.30, dopo cinquanta minuti di pausa, era tutta così [imita una persona assonnata sulla sedia]. Compreso Mario Cecchi Gori»

La prima cinepresa e Roberto Rossellini: «Nel 1970 vedevo che mio fratello Luca [regista] faceva molto bene dei piccoli documentari con una macchina in Super 8. Io dissi ‘Però, non è male’. Nel frattempo, io stavo frequentando un cineclub che si chiamava Film Studio a Trastevere, dove si vedevano tutti i film underground, di Andy Warhol, di Kenneth Anger, i film sperimentali di Yoko Ono, Marcopoulos, Mario Schifano. Tutti i più grandi. Era interessante anche se c’era poco da capire, erano sperimentazioni. Avevo voglia di sperimentare anche io. Era arrivato il momento di comprarmi una Super 8 perché mio fratello non me la voleva dare. Seppi da Christian [De Sica] che la sua amica Isabella Rossellini cercava disperatamente di vendere la sua cinepresa in Super 8 perché doveva pagare un conto di 70.000 lire per un fidanzato che aveva a Latina, e all’epoca scattava la tariffa. Non è come oggi, lì anche quando chiamavi Anzio, Latina, etc. scattava la tariffa ed erano 15-20 lire in più. Alla fine Rossellini non voleva darglieli e allora lei mi diceva ‘Guarda, Carlo, ti vendo questa Bolex, ha pure il macro-zoom’. Le dissi ‘Dimmi quanto vuoi’ e lei ‘Dammi 70.000 lire è il prezzo che devo pagare per la bolletta della Sip’. Io non li avevo 70.000 lire e allora chiesi a mio zio un contributo e mi diede 10.000. Chiesi a mio padre, altre 10.000 lire, mia madre 5.000 lire, e alla fine piano piano con i parenti riuscii ad arrivare a 70.000. Con questa Bolex cominciai a fare dei film sperimentali. Erano immagini deformate, io venivo dal cinema sperimentale, con musiche elettroniche. Uno si chiamava Poesia solare, un altro Allegoria di primavera e un altro Elegia notturna. Erano tutte immagini che prendevano vita dal tramonto, la notte fino all’alba. Era tutto un po’ astratto, è molto difficile spiegarlo. Erano dei movimenti visivi, erano visioni, un po’ psichedelici in qualche modo. Succede che Elegia notturna lo inviai ad un concorso importante a Tokyo. Lo spedimmo e dopo venticinque giorni ci arrivò un telegramma. Avevo vinto il primo premio, pur non stando a Tokyo. E in gara non c’erano 35mm; c’erano 16mm, le Super 8 erano poche. Era gente che aveva una piccola produzione alle spalle, a Roma c’ero soltanto io coi soldini miei. Questa cosa mi riempì di gioia. Si congratularono, anche se stavo in Italia, e lo ritenevano degno di essere premiato. Mio padre mi disse ‘Senti, io non ci capisco nulla però forse domani chiamo Rossellini, fagli vedere i tuoi film, vediamo che dice; se ti piace il cinema, se vuoi fare il Centro Sperimentale sentiamo un parere autorevole. Io non faccio raccomandazioni, senti cosa ti dice’. Lo chiamò e gli diede appuntamento due giorni dopo. Alle 10.00 di mattina andai al Centro Sperimentale, con i tre film. Entrai in una stanza enorme, un vecchio edificio fascista, con delle finestre enormi di marmo, senza serrande, com’era l’architettura razionale di quegli anni. Un bel palazzo. Ad un certo punto entrò Rossellini con un profumo… vestito benissimo, cravatta elegante, una Chesterfield senza filtro:’Allora, dov’è questo regista’. E io ‘Eccomi qua, maestro’. Lui ‘Dove sono i film?’, ‘Qua’ risposi. E lui ‘Beh, non è che ne possiamo vedere tre. Scegli quello che ritieni più significativo’. E io dissi ‘Eh, quello che ha vinto a Tokyo’. Disse ‘Avanti, montalo’. A quel punto risposi ‘Presidente, mi scusi, c’è un problema; in questa stanza purtroppo c’è tanta luce’. Disse ‘E allora?’, e io ‘Allora, non si può vedere il film, dovremmo stare al buio, forse se andiamo in un’altra stanza…’, e lui ‘No, no, no, questo è il mio studio e si vede qua’. E io insistetti ‘Ma come se fa a vedere qua’, ‘Si fa! Prendi il proiettore e lo schiaffi vicino alla parete!’. A me l’idea di far vedere il mio film che diventava piccolo come un francobollo del Nicaragua a Roberto Rossellini mi spezzava il cuore. Però era Rossellini. Allora montai tutto, lui prese la sedia e si mise col muro così [mima la vicinanza della sedia alla parete]. Ad un certo punto, siccome dalle finestre enormi proveniva un raggio di sole che lo pigliava in pieno sugli occhi e nel mentre era iniziato il film che durava venti minuti, montai sul davanzale di nascosto e cercai in qualche modo di coprire il raggio di sole che andava a colpirgli l’occhio, per farglielo vedere meglio. E allora rimasi cinque minuti piegato, sempre di più. Ad un certo punto Rossellini mentre stava guardando il film mi diede un’occhiata e mi vide così [piegato] e mi disse ‘Ma che fai?’ e io ‘Maestro, io sto cercando de levarglie un raggio che la sta beccando sull’occhio…’ e m’interruppe ‘Io vedo tutto! Scendi da là’. Scesi di corsa, un salto tremendo. Mi disse ‘Si vede benissimo uguale’. Arrivammo alla fine, mi guardò ed esclamò ‘Non male. Si vede che ti piace l’Antonioni del Deserto Rosso, l’Antonioni de L’eclisse…’. Io l’Antonioni del Deserto Rosso e de L’eclisse non li avevo mai visti, non li conoscevo ma subito risposi ‘Molto, maestro. Molto’. E lui ‘Si vede. Manda subito la domanda e vediamo cosa dice la commissione’. ‘Grazie maestro’, ‘Prego’. Prese la terza Chesterfield, l’acciaccò e se ne andò, lasciando un profumo meraviglioso dietro. Il profumo della brillantina di Rossellini con questa Chesterfield senza filtro era una cosa… Chiusi tutto, andai a casa da papà:’Eh, pare che abbia detto di far domanda per entrare’. Feci domanda, entrai e fui un allievo del Centro Sperimentale con Roberto Rossellini presidente.

Però successe una cosa. Negli anni ’70 gli studenti erano così: Autonomia Operaia, Potere Operaio, Lotta Continua, Partito Comunista. Basta. Quindi, la Democrazia Cristiana era rappresentata dal Partito Comunista, tutti gli altri erano sinistra extraparlamentare, perciò era una classe pronta alla contestazione. Ci presentammo, io chiaramente ero il più borghese di tutti, loro coi capelli un po’ come Jimi Hendrix, con le casacche, tutti con Lotta Continua, il Manifesto, Potere Operaio… Un giorno, prima lezione di Rossellini. Trattandosi della prima lezione con Rossellini uno sta un po’ diritto con la schiena e attento. Invece loro si misero là normali, curvi sul banco. E lui cominciò a parlare degli obiettivi che la PanaVision aveva creato per un satellite che doveva fotografare altri pianeti, non so… Ci cominciò a parlar di obiettivi, teleobiettivi molto potenti che sarebbero stati utili, secondo lui, per il cinema. Perché aveva delle idee. La prima lezione sugli obiettivi. La seconda lezione ancora sugli obiettivi. La terza lezione sugli obiettivi. Ad un certo punto, il più tremendo di tutti, di Potere Operaio, s’alzò e disse ‘Ha rotto er cazzo questo co’ gli obiettivi’. Rossellini disse ‘Non ho capito che hai detto’. E lui ‘No, niente’. E continuava, continuava. Un’altra lezione cominciò a parlare dei piani sequenza e dei teleobiettivi. Allora uno disse ‘Si ma noi vogliamo parlare del valore sociale di un film per le masse meno abbienti…’ e lui ‘A quello ci arriveremo, però ora sentite questa lezione tecnica’. Quello che aveva pronunciato quella frase irrispettosa fece un gesto di un’insubordinazione incredibile che ci fece vergognare e distrusse Rossellini. Si voltò verso di lui mentre noi eravamo in silenzio a guardare i teleobiettivi della PanaVision, si alzò e fece un peto in faccia a Rossellini. Uno disse sottovoce ‘Ma porca miseria, è sempre il padre del Neorealismo!’, e lui ‘Me frega niente’ e l’altro ‘Ma che sei scemo?’. Rossellini aveva sentito benissimo quello che era successo, stava parlando e rimase un minuto in cui non sapeva più che fare, poveraccio, il padre del Neorealismo. Si alzò, sempre con la Chesterfield in mano, la buttò per terra, l’acciaccò e andando via disse ‘La lezione per me finisce qui e non ci saranno altre lezioni per me qui’. Uscì. E noi, anche quelli di Autonomia Operaia ‘Ma no, no hai sbagliato, compagno hai sbagliato’. Alla fine un macello. Il corso nostro fu un disastro però Rossellini, insomma; posso sempre dire di esser stato in una scuola dove Rossellini era presidente. Purtroppo il finale non è edificante e purtroppo questo ragazzo qualche anno dopo si sparò e si suicidò. Questo era il termometro di quegli anni. Anni di follia»

Il sogno legato al padre: «Andai a Torino a presentare un libro rieditato sul Neorealismo di mio padre, perché c’erano due inserti scritti da me e da mio fratello Luca. Il libro è ovviamente di papà. La notte prima feci un sogno tragico che sembrava vero. Sognai mio padre che veniva a svegliarmi e mi diceva ‘Come ti sei permesso di mettere la firma sul libro che ho scritto io. Come ti sei permesso’ e io ‘Papà, scusa ma io ti vado a celebrare sul tuo libro, tu non ci sei più e siccome c’è un pezzo mio la gente chiede un autografo e io devo mettere il mio’. E lui ‘Non si fa, il libro non è tuo. No, no! Hai fatto una coglionata. E poi Rossellini è incazzato con te’. E io dico ‘Perché?’. E lui ‘Perché non gli hai citato Germania Anno Zero’. Era un sogno però purtroppo era talmente vero che quando mi son svegliato all’Hotel Principe di Torino mi son detto ‘Meno male che era un sogno. Che brutto incubo, mio padre che si arrabbia per questa cosa’. La figura di mio padre spesso appare nei sogni perché mi manca molto e perché è stato un personaggio fondamentale»

Gli inizi come attore: «Io non mi sono mai ritenuto adeguato per fare l’attore perché ero una persona molto timida, che faceva ridere molto gli altri ma allo stesso tempo ero molto riservato. Ero riservato con dei momenti in cui scattavano imitazioni e scherzi. Però quando accompagnavo mio padre alle conferenze e aveva davanti 100 persone, 80 persone, 90 persone, una volta a Parigi 200 persone all’UNESCO, dicevo ‘Io non diventerò mai come mio padre. Io non farò mai il suo lavoro perché come potrei parlare di fronte a 90-100-200 persone, quando mai’. Per me era un attacco di panico. Poi invece la vita ha deciso in un altro modo. Io ho cominciato facendo teatro ma a livello universitario. Mio fratello credeva in me, io non credevo in me, però quando andavo sul palcoscenico avevo una strana forza, diventavo un po’ Mr. Hyde, in qualche modo. E avevo una bella memoria, quella che mi ha sempre sostenuto. Interpretavo quello che lui voleva e mi faceva sempre fare il protagonista. Ma cose molto serie, tipo in ‘Pittura sul legno di Ingmar Bergman’ io facevo il palafreniere del principe, un’altra volta facevo una cosa di Rabelais, facevo Panurgo, un po’ più comico. Ricevevo molti complimenti da parte del pubblico, che poi erano soprattutto amici, diciamoci la verità. A livello universitario ti venivano a vedere gli amici degli amici. Una sera si ammalarono quattro attori. C’era un’epidemia di influenza perché il teatro era molto freddo, era in via Cavour, una cantina due piani sotto, una cosa terribile. Mio fratello disse ‘Ma proprio oggi che c’abbiamo 50 biglietti venduti, oddio! Questo poi ce leva il teatro’. Io in un momento di pazzia dissi ‘Te li faccio io’. E lui ‘Ma come li fai te’, e io ‘Ci provo. Tanto le battute un po’ le so, se mi dai il suggeritore dietro, se quello delle luci me da anche le battute’. ‘E come fai?’, risposi ‘La vecchia fattucchiera me dai lo straccio e me metto lo straccio, il principe me dai una spada con quel mantello là e te lo faccio’. Alla fine riuscii a sostituire i quattro attori. Il risultato fu eclatante, perché c’era un pazzo che entrava e usciva cambiando completamente anche le voci, e il pubblico apprezzava molto. Tant’è che il giorno dopo aumentavano di 10 unità, 15 unità. A quel punto gli attori si rimisero e tornarono pronti per riprendere e non li volevamo più perché funzionavo meglio io. Allora mio fratello litigò con tutti e io dicevo ‘È mio fratello il regista, prendetevela con lui’. È cominciato in quel momento. Un critico venne a vedere uno spettacolo e scrisse bene di me. E poi una sera portai un mio amico inglese che non sapeva ‘na mazza di italiano. E mi dissi ‘Dove lo porto questo?’. C’era uno spettacolo al teatro Alberichino di Roma che era un tempio dell’underground, ci avevano già recitato Roberto Benigni e Mario Cioni. Al piano di sopra c’era Paolo Poli. Erano due teatri, uno grande l’Alberico e al piano di sotto l’Alberichino con 50 posti. All’Alberichino c’era Daniele Formica, un mimo, allora dico ‘Lo porto a vedé un mimo, almeno…’ E gli piacque molto. Rimasi a cena con i ragazzi perché scoprii che poi diventava ristorante, e trovai un mio amico che mi pregò di fare imitazioni di voci, di cose, etc. Io cominciai a fare queste voci e vidi il capo del teatro che mi disse ‘Senti un po’ ma perché non ti prendi il teatro e te metti a fa ‘no spettacolo, stai in scena quindici giorni’. E io ‘Ma non c’ho il testo ma no, ma queste so’ imitazioni io non sono un attore’ e lui ‘Ma come non sei un attore, ‘sti personaggi funzionano’. Allora tornai a casa con l’idea e mia madre, che aveva capito tutto, disse ‘Falli, Carlo. Falli’. Ad un certo punto, mancavano otto giorni alla prima, c’era scritto ‘Spettacolo di Carlo Verdone’ ma non gli avevo ancora dato il titolo. Cominciai a scrivere il primo monologo, era mezzanotte, mi ricordo che presi un Ansiolin. ‘O m’addormento oppure me calmo e forse qualcosa esce fuori’. Presi ‘sta pasticca di Ansiolin e scrissi il primo monologo. E il primo monologo che scrissi era quello del parroco di campagna che attaccava così. C’aveva gli occhiali neri ed era un po’ claudicante: ‘Cari fratelli, cari sposi. È con grande letizia che oggi ci incontriamo. È un momento questo, che ci unisce nella preghiera a nostro Signore Gesù Cristo per i nostri fratelli, Walter e Nadia, che oggi consacrano il loro matrimonio a nostro Signore. Non è facile oggi, fratelli, penetrare l’importanza di questo passo. Oggi per molti il matrimonio è una parola comune come cane, casa, cavallo, tavola, sedia. Ma perché? Ci siamo mai domandati il perché? La risposta, cari fratelli, è chiara, semplice, limpida, tersa come l’acqua. Oggi molti matrimoni naufragano nella tempesta degli interessi, oggi molti matrimoni sprofondano nel parto della reciproca incomprensione. Oggi molti matrimoni si fondano esclusivamente sulla bellezza estetica’. E toglieva gli occhiali con l’occhio cecato. È un miracolo che me lo sono ricordato. Il giorno dopo lo recitai completo ai miei genitori che risero molto, a mio fratello che rise molto e mamma disse ‘Avanti, gli altri’. Allora cominciai a pensare a che voci strane avevo sentito. C’era un mio amico che parlava così [imita uno studente dell’epoca] ‘Hai sentito l’ultimo dei Pink Floyd? Compralo perché senti proprio l’acido’. Questo tipo di voce era tipico di un certo movimento studentesco dell’epoca del post-Sessantotto, Lotta Continua, Potere Operaio eccetera, no? Era una voce tipica di quel periodo, di un ignorante che tentava di fare l’intellettuale attraverso molti ‘Cioè, cioè, cioè, nel senso, nel senso, le cose, i fascisti, le cose, eccetera’. Scrissi il monologo del bambino di Dio, chiamato così perché all’Alberichino erano tutti di estrema sinistra. E poi arrivò quello di Marisol.

Mamma ci diceva sempre ‘C’è un bambino che abita al primo piano e che tutte le volte che lo incontro chiede di poter giocare con voi. E andateci un pomeriggio, che vo’ fa i tiri in porta, che ne so, c’ha il corridoio lungo. Andate a trovarlo, poi è bravo, con il papà fa un presepio bellissimo’. Eravamo sotto il periodo natalizio. Il tempo passò. Un giorno squillò il campanello di casa. Andai ad aprire io e vidi un ragazzetto piccolo ma con un vocione ‘Ciao so’ Stefano! Abito al primo piano. Volevo dì se te e tuo fratello venivate giù a fa i tiri in porta!’ Allora io chiamai Luca e cominciai a ridere e lui ‘Ho detto a Carlo, perché non venite giù a fa i tiri in porta, che poi ve faccio vedé pure il presepio’. Scendemmo e dissi ‘Si ma possiamo stare poco perché dobbiamo fare i compiti’. E lui ‘Vabbè, venti minuti’. Allora scendemmo e trovammo un presepio meraviglioso, di una poesia unica. Stefano era un grande artista. Lui e il padre. Quello era uno dei più bei presepi che abbia mai visto nella mia vita, di quelli casalinghi. Le colonne, ‘Vedi l’acqua che scorre? Abbiamo fatto un marchingegno con l’acqua che viene raccolta poi torna con una pompetta e scorre, come un ruscello, no? Infatti c’abbiamo messo le pecore che bevono. Poi ce sta la cometa, la vedi la cometa? Abbiamo preso un giradischi, l’abbiamo messo a 16 giri con la cosa e l’ombra della cometa’. In effetti la cometa era perfetta, passava sul cielo a 16 giri. E noi ‘Ah, bellissimo, meraviglioso’. E lui ‘È tutto bello però c’è un errore’. E io ‘Che errore c’è, è perfetto questo presepio’. E lui ‘Ce sta un errore’. Allora cominciammo a guardare il presepio e dissi ‘Qual è l’errore?’. Disse ‘Guardate dentro la capanna. Guardate dentro la capanna’, esclamai ‘Vabbè, non c’è il bambinello ma lo devi mettere il 24 ser..’ e mi interruppe ‘Non c’entra niente il bambinello, guardate dentro la capanna. Non notate niente? Guardate gli animali’. Effettivamente c’era un bue che stava con le zampe a riposo e c’era una specie di asinello, un mulo, che non era giù, era alzato. Quella era l’unica cosa. Dissi ‘C’è un dislivello tra il bue e l’asinello’. E lui ‘Esatto. Perché non è un asinello. Perché io l’asinello, quando l’ho scartato per fare il presepe, m’è cascato e me s’è rotto. Sai quanto chiedono a piazza Navona per n’asinello? Ducento lire. Ma che gli vado a dà ducento lire?’. All’epoca ducento lire era una cosa… ‘Allora, sai che ho fatto? Ho preso una scatola de soldatini, ho preso una giubba rossa a cavallo. Ho staccato la giubba rossa, l’ho dipinto di grigio e l’ho spacciato per l’asinello. È un errore, è un errore’. Questo personaggio, oltre ad essere una specie di Forrest Gump, era un personaggio veramente surreale, quindi come fai a non volergli bene ad un personaggio così. Sentendo tante storie che mi raccontò della sua vita ecco che nasce il personaggio di Leo e Marisol, il personaggio di Mimmo e la nonna, Elena Fabrizi. Quindi, quel ragazzetto che non volevamo andare a trovare è stato una chiave di volta della mia carriera. Lasciando stare i neorealisti che sono stati grandissimi registi e io non so se mi ritengo tale, però anche io sono stato un pedinatore di romani e di italiani, soprattutto di romani per i primi film. Andavo in cerca di racconti; dal calzolaio, dal vinaio, nella bisca, giocavamo molto a flipper… Vedevo un apparato umano molto interessante, le battute, le megalomanie, le mitomanie, i tic, i difetti, le fragilità. Come parlavano, i ragionamenti. Diventai non un imitatore di voci ma un imitatore di caratteri, più che altro, cercai di riappropriarmi dell’anima, di quello o di quell’altro personaggio e cercai, con una lente d’ingrandimento, di portarli al pubblico. Non sapevo se funzionavano o meno»

Battute e citazioni di uso comune: «Dipende da come le fai, è una magia dell’autore. Francamente, il meccanismo e la motivazione non li conosco, è qualcosa di misterioso. Però quando un giorno scrissi il copione di Bianco, rosso e Verdone e venne fuori ‘Magda, tu mi adori? E allora lo vedi che la cosa è reciproca?’ sentii la mia ex moglie che rideva, rideva tanto ‘Com’è che hai fatto? Ma funziona questa’. E io ‘Questa cretinata funziona?’. Per me era una cosa che non aveva senso. Quello è stato un timbro, non solo verdoniano, ma di Furio, della sua pignoleria, del suo maschilismo insopportabile. Non lo so perché certe cose funzionano, dipende da come le dici. È chiaro che in Viaggi di nozze riuscivo a far ridere anche fumando una sigaretta. Purtroppo ne ho fumate veramente tante, ho dato anche un cattivo esempio, però per me la sigaretta è stata certe volte una partner importante. Perché quando faccio il discorso con la Gerini dicendo ‘Se t’uscisse fuori un maschio’ – stanno parlando di avere un figlio ‘me piacerebbe chiamarlo o Alan o Kevin’ e lei me fa ‘Ma perché, lo fai per Costner?’. E io ‘No, lo faccio perché Kevin me dà un senso de Kevin!’ Come se fosse un dobermann, lo vede così lui. E lei dice ‘Se venisse fuori ‘na pupa me piacerebbe chiamarla Maria’ e lui ‘Ma è un nome da presepio Maria chi se chiama più Maria’ e lei ‘A me me piace’. Queste sono tutte battute scritte al momento, perché avevamo cambiato set, non potevamo recitare quello che c’era veramente scritto perché c’era un temporale in atto su Tarquinia, e andammo a girare all’Acquafan di Tivoli che spacciammo per Versilia. Queste sono battute inventate da me e Claudia [Gerini] al momento. Non c’era scritto niente. Però alla fine io mi alzo con la sigaretta e per buttare la sigaretta faccio così [alza la gamba e la butta da sotto] prima di fare il tuffo. Non c’entrava niente ma l’ho fatta talmente bene che la sigaretta è diventata una co-protagonista. Come la sigaretta di Borotalco: ‘Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, m’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana. Non seppi mai cosa trasportasse quel cargo. No, forse un giorno lo capii: droga’. La sigaretta m’ha aiutato tantissimo anche se poi me so fatto male. Non ho vizi, ho solo quello»

Cosa fa divertire Carlo Verdone: «La gente più anonima, più grigia. Se parliamo di attori ne ho due preferiti: uno è Jack Lemmon e l’altro è Walter Matthau. Come loro non c’è nessuno. Erano due attori che sapevano fare il comico e sapevano fare il drammatico. In Salvate la tigre, che è un film drammatico, c’è un’interpretazione pazzesca di Jack Lemmon. In Italia mi è piaciuto molto il Sordi in bianco e nero. Sordi a colori, sempre grande ammirazione ed enorme rispetto, ma non era quella novità, non aveva quella potenza che aveva il Sordi de I vitelloni, il Sordi de Una vita difficile, di Tutti a casa, de Lo sceicco bianco, che fu praticamente il suo esordio. Quel Sordi era pazzesco. Poi Ugo Tognazzi l’ho molto amato e stimato. Loro sono stati i due, come attori italiani, che mi sono più piaciuti. Avevo un debole per Massimo Troisi, per i suoi tempi comici, per il suo modo, per la sua filosofia. Però eravamo anche molto amici e mi è rimasto molto nel cuore. Poi dipende, da film a film ci sono attori che fanno tre o quattro lavori e non succede niente e azzeccano un film e sono divertenti e molto bravi. Ci sono diversi attori, non tantissimi, però ci sono. Però ci manca quel numero di grandi attori che abbiamo avuto soprattutto negli anni ’60. Come ci mancano i caratteristi che avevamo negli anni ’60. Oggi nessuno vuole far più il caratterista. A parte il fatto che non ci sono più registi però il caratterista non lo fa più nessuno. Vogliono fare tutti i protagonisti, con il risultato che il 99% delle volte sbagliano perché bisogna avere l’umiltà di capire che non possono fare i protagonisti. Uno lavorerà tutta la vita se fa il caratterista. Per i caratteristi di cui ci ricordiamo i nomi ci vuole un regista che li sa dirigere ed entra nella loro psiche e nella loro anima, e cerca di farli recitare come recitano nella vita. Io come li ho conosciuti? Attraverso cose normali della vita che mi facevano ridere. Ho cercato di scrivere delle cose che riportassero cose della loro vita nel film in questione. Brega prima chi era? Era uno che sparava, tirava cazzotti ma niente. Con me diventa, in Un sacco bello, un co-protagonista, quasi. Elena Fabrizi aveva due piccole parti, due piccole battute ‘Sì, dottore’, ‘Deve prendere la pasticca’, ‘C’ha l’iniezione’. Con me ha un ruolo molto più importante. Io ho dovuto combattere per avere Elena Fabrizi, perché Sergio Leone non la voleva. Mi diceva ‘Ma che sei matto? Quella con quel ristorante ma tu lo sai quanto c’ha, io me so informato, c’ha 350 de colesterolo! Questa ce more! Ce more! Non è coperta dall’assicurazione poi una volta che è morta che famo ricominciamo il film?’ Io dissi ‘Starò attento’. Poi guarda com’è finita, con la carbonara e l’amatriciana»